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L'Africa per me era in Italia

Posted on 07 October 2013

Venerdì 20 settembre nella sede degli Archivi Storici dell’Unione Europea a Villa Salviati, Firenze, si è tenuta la cerimonia nazionale per il Premio Cittadino Europeo, che viene assegnato ogni anno dal Parlamento Europeo. Daniel Vogelmann, fondatore della casa editrice "La Giuntina", l'Associazione Onlus "Avvocato di strada " e Suor Eugenia Bonetti, presidentessa dell’Onlus "Slaves No More" erano i tre vincitori italiani di quest'anno. I premi sono stati consegnati dagli on.li Paolo Bartolozzi, Vittorio Prodi e Niccolò Rinaldi, membri del Parlamento Europeo.

Prima dello svolgimento della cerimonia Suora Eugenia Bonetti ha spiegato, in un’intervista rilasciata agli Archivi Storici, la sua visione della vita umana, la sua missione per aiutare le donne vittime della tratta e il valore del premio cittadino Europeo.

Suora Eugenia Bonetti

Anni fa Lei ha deciso di trasferire la sua missione dall’Africa a Torino per lavorare con le rifugiate, donne vittime della tratta di esseri umani. Che cosa L’ha spinta a questa decisione?

Questa decisione non l’ho voluta io. Quando mi è stato chiesto di tornare in Italia, non conoscevo assolutamente niente di questo problema, e quindi è stata una scelta fatta dalla mia congregazione. Dopo aver vissuto 24 anni in Africa, mi hanno chiesto di ritornare in Italia e di cominciare a lavorare in un centro della Caritas dove arrivavano tante donne immigrate. C’era quindi bisogno di una presenza missionaria che conoscesse anche la lingua e la cultura di queste donne, soprattutto la cultura africana, per aiutarle a inserirsi nella nostra società. Lì, per la prima volta, nel novembre del 1993, ho incontrato il mondo della notte e della strada proprio attraverso il grido di una donna nigeriana che chiedeva aiuto. Ecco che allora mi si è aperto un mondo nuovo e c’è voluto un po’ di tempo prima di riuscire a capire che cosa dovevo fare, ma è stato proprio il contatto con questa prima donna bisognosa che mi ha aiutato davvero a scoprire questo mondo terribile di violenza, di sfruttamento, di umiliazione che tante giovani africane vivevano nel mio paese.

Questo mi ha messo profondamente in crisi, perché mi ha aiutato a capire che la missione non era più sola geografia, la missione era dove c’erano questi popoli che si spostavano in continuazione, vivevano in situazione di sfruttamento e di umiliazione. Lì la mia missione ha iniziato a vivere un’altra realtà missionaria, non più in Africa ma nel mio paese. Ecco, questo è avvenuto proprio attraverso il grido di una donna: ‘’Sister please help me, help me’’ e allora mentre io cercavo di aiutare lei, lei aiutava me a capire in che situazione vivevano migliaia di altre donne.

In questo periodo, nel 1993 a Torino, noi potevamo avere tremila donne nigeriane che di notte facevano le pendolari e visitavano e andavano sulle strade di cinque regioni: Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Si spostavano e allora era un mondo sommerso, un mondo di umiliazione, un mondo di tanta sofferenza e di tanto sfruttamento. La mia missione è iniziata così perché veramente il Signore voleva che entrassi in contatto con le donne africane non più in Africa ma in Italia. Ecco, ho avuto la possibilità di entrare in questo mondo quando loro hanno cominciato a venire al centro chiedendo aiuto; allora è cominciata questa nuova avventura, un’avventura che mi ha aiutato davvero e non mi ha fatto tornare la voglia di tornare in Africa, perché ormai l’Africa per me era in Italia.

In che cosa consiste il lavoro quotidiano dell’associazione "Mai più schiave”?

L’associazione “Mai più schiave” è un’associazione che è stata creata poco tempo fa, in modo particolare per aiutarci a soddisfare la richiesta delle persone che chiedono di ritornare nel loro paese di origine. Noi da tanti anni, come religiose, lavoriamo in rete e in Italia abbiamo moltissime case di accoglienza gestite dalle suore. Le suore hanno aperto le porte sante del convento per accogliere queste donne che scappavano e che chiedevano aiuto; poi cercavano di reintegrarle, di dare loro un lavoro, un’istruzione, un permesso di soggiorno e dei documenti. Dal 2000, dopo aver lavorato a Torino, mi hanno chiesto di trasferirmi a Roma, per coordinare il lavoro di tante suore che aprivano le case di accoglienza. Ci sono tante attività tra cui le unità di strada, con suore che vanno di notte sulla strada a incontrare le ragazze, e abbiamo anche accesso ai centri di permanenza, di identificazione e di espulsione. Quindi l’associazione "Slaves no more" ha richiesto di poter essere legalmente riconosciuta anche a livello di governo, di legislazione. Con un riconoscimento legale avevamo anche la possibilità di lavorare in diretta collaborazione con i paesi di origine.

"Slaves no more" è un grido fortissimo per noi e un ultimo tassello di tanti tasselli messi insieme; questo complesso mosaico vuole raggruppare tutte queste emergenze, questi impegni di tante religiose in Italia. Siamo 250 religiose e lavoriamo in questo settore a tempo pieno, quindi "Slaves no more" voleva essere proprio un’associazione che abbracciasse tutte queste realtà e che ci desse l’opportunità di fare un salto in avanti. Vedevamo che c’era bisogno di aiutare queste persone a ritornare nei loro paesi. Anche la documentazione che noi diamo a queste donne però è stata una preparazione di molti anni che poi è sfociata in quest’organizzazione. “Mai più schiave” non è più solo fatta di religiose ma anche di laici: è fatta di uomini, di donne, di persone che lavorano nella Caritas, di persone che lavorano con i media. L’obiettivo è quello di raggruppare persone con esperienze diverse, tutte motivate dalla possibilità di aiutare queste donne e soprattutto quelle che chiedono di ritornare in patria, che hanno bisogno di un grande aiuto, anche materiale, per potersi reintegrare.

La rete che avete costruito, come facilita la cooperazione transfrontaliera?

La rete facilita moltissimo, soprattutto in termini di comunicazione. La comunicazione, che ogni giorno arriva attraverso la posta elettronica, il telefono, la conoscenza e gli inviti, è andare a visitare, parlare, conoscere, far emergere il problema; questo significa creare una vera e propria rete di comunione, di collaborazione. Il nostro motto è “noi non lavoriamo in competizione, ma vogliamo lavorare in comunione”. Ciascuna ha un’abilità specifica che può mettere in atto, non tutte devono fare la stesa cosa; se noi mettiamo insieme tutte queste realtà, il beneficio va alla persona. E allora, collaborando insieme, ciascuno con le proprie specificità, noi possiamo offrire un grande servizio. Io sono in collaborazione e in comunicazione con tanti paesi. Tra il 2000 e il 2001 ho visitato 45 paesi fuori dall’Italia, perché è importante essere presenti, è importante conoscere la realtà, perché è proprio attraverso il contatto di persona che si riesce poi a dare delle risposte.

Lei si è dedicata al fenomeno della tratta degli esseri umani già da molti anni. Che cosa significa per Lei il premio cittadino Europeo?

Per me il premio cittadino Europeo ha un significato non personale, ma rappresenta il riconoscimento di tutta una rete, perché è solo lavorando insieme che noi raggiungiamo questi obiettivi. Noi siamo in collaborazione con tutte le religiose del mondo religioso europeo, perché dopo aver creato questa nostra rete in Italia, abbiamo iniziato a lavorare anche al livello internazionale creando una rete chiamata Talita Kum, dove ci sono religiose di tutti i paesi del mondo. C’è poi anche una rete al livello europeo chiamata Renate, Religious Against Trafficking in Women.

Questo riconoscimento va a tutte queste realtà, perché è un lavoro capillare; se non ci fosse il lavoro capillare, non si potrebbe ottenere niente perché il lavoro incomincia dalla prevenzione e dal transito, continua con il transito e poi prosegue con la destinazione. È per quello che è importante avere questo mondo sotto mano, in modo da riuscire a dare delle risposte adeguate, quindi lavoro di prevenzione, lavoro di sostegno, lavoro di accoglienza, lavoro di reintegrazione, lavoro di accompagnamento, lavoro di legalità.

La persona è quello che è veramente essenziale, e questo riconoscimento al livello europeo è un riconoscimento non solo di chi opera in questo settore ma di queste persone che hanno vissuto e che vivono questa realtà, che sono riconosciute come persone, quindi come esseri umani che hanno il diritto di essere aiutati nella loro situazione; anche loro fanno parte di questo premio. Siamo riconoscenti di questo perché vuol dire che c’è un’attenzione a questo mondo, questo mondo della notte, della strada, un mondo sommerso, un mondo di grandi sofferenze che noi vogliamo fare emergere.          

Pensa che il premio cittadino Europeo La aiuterà ad ampliare la sua missione?

Io penso di sì, perché noi lavoriamo molto anche con i mezzi di comunicazione. Ciascuno ha un ruolo, noi abbiamo il nostro ruolo e cerchiamo di fare del nostro meglio, però ci sono il ruolo della società, quello di altre NGO, quello della chiesa, quello della scuola, quello della famiglia, quello dei mezzi di comunicazione. Sono tutti ruoli di grande importanza, perché solo lavorando insieme, noi riusciremo veramente a spezzare tutti gli anelli di questa catena. Per quello l’associazione si chiama "Slaves no more"; parliamo infatti di schiavi e di catene. Queste catene sono costituite da anelli e questi anelli devono essere spezzati, perché essi hanno dei nomi e ognuno di questi nomi ha il dovere di aiutare a spezzare questa catena e a liberare queste persone. Avere ancora milioni e milioni di persone ridotte in stato di schiavitù nel 2013 è una grande vergogna, una grande umiliazione anche per il nostro mondo che si dice ormai globalizzato ed emancipato. Noi non possiamo più accettare di vivere la realtà di queste persone sfruttate e umiliate, schiavizzate dai nostri sistemi di vita, quindi dobbiamo lavorare insieme perché questo riconoscimento possa far emergere in qualche modo anche la loro realtà.   

I fondi d’archivio depositati presso gli archivi storici dell’Unione Europea rivelano i sogni di pace e le azioni per i diritti fondamentali dei fondatori e dei cittadini dell’Europa unita. Come si sente a ricevere un premio qui presso la sede degli archivi Europei?

Questo è un grande onore, un grande privilegio, ma è anche una grande gioia, perché mi sento Europea in tutti i modi, in tutti i sensi. Lavorare con persone che vengono anche da paesi Europei e sono nel mio paese vittime di tratta è per me una sfida fortissima che mi dice: “No, in Europa non possiamo più avere la schiavitù”. Allora dobbiamo insieme lavorare per abolire questa schiavitù; per farlo, bisogna abolire la povertà, la disuguaglianza, lo sfruttamento e anche la discriminazione di razza che c’è ancora anche in Europa. Allora questa realtà ci aiuta veramente a fare emergere che vogliamo un’Europa non solo unita monetariamente, ma anche unita da princìpi di giustizia, di dignità, principi dove ogni persona è riconosciuta come tale. Insomma, qui c’è una grande sfida per tutti, forse queste occasioni possono aiutare a recuperare questa visione di un’Europa unita, di un’Europa che ha un ruolo.

Insieme possiamo raggiungere questo obiettivo, non possiamo veramente lavorare così in isolamento, non è più il tempo di lavorare ciascuno nel proprio orticello. Noi abbiamo paesi di origine, abbiamo paesi di transito e abbiamo paesi di destinazione e allora noi vorremmo fare di questa nostra Europa veramente un paese unico, dove ogni persona, soprattutto ogni donna, si riconosca tale con i suoi diritti, i suoi doveri, il suo ruolo, la sua capacità di aiutare l’Europa intera a rendersi sempre di più un’Europa unita, basata sugli stessi ideali e su diverse tipologie di cultura: la cultura dell’accoglienza, la cultura del rispetto, la cultura della dignità.

Questi sono i sogni che noi abbiamo di un’Europa unita, perché non andremo da nessuna parte fino a quando continueremo a discutere soltanto della situazione economica. Noi dobbiamo lavorare proprio per offrire a ogni persona la capacità di essere un membro attivo di questa comunità europea, ma nello stesso tempo dobbiamo anche capire che ci sono ancora tante emergenze da risolvere e tante situazioni da riprendere in mano. Ogni persona che vive in Europa deve poter dire: “Anch’io sono parte di questo grande mondo europeo”. 

Associazione “Slaves no more onlus”

Premio cittadino Europeo

 

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